La paletta
- Chiara Donati
- 17 apr 2020
- Tempo di lettura: 17 min

Ho scritto questo racconto anni fa per un corso di letteratura all'università. Si tratta della riscrittura di un capitolo di "Eccetera" di Emilio Tadini. In quel periodo avevo da poco riletto "Dubliners" e alcune novelle di Pirandello: l'influenza di questi due autori è, dal mio punto di visto, più che evidente.
Buona lettura!
Ecco. Lo sapevo. Se ne sono andati anche loro. Tutti e due, d’un colpo. Non sono i primi a lasciarmi così. Con il secchiello e la paletta appesa al dito. In diverse occasioni mi sono trovata a non dormire la notte, pensando a come costruire il mio castello. Con la mano sulla fronte pallida o tra i capelli sudati non riuscivo a vedere che loro: quelle domande che schiacciano il cuore e i polmoni. Non ho mai capito se perché fumo troppo o perché esiste veramente qualcosa in grado di togliere il respiro. Ecco. Quelle domande lì. Ci sono stati momenti in cui ho pensato anche che fosse tutto inutile. Perché passare tutta la vita a costruire qualcosa la cui utilità sembra così vana e impalpabile, un castello? Avrei preferito fare una pista da biglie, credo, o forse una bella, immensa scultura. Ma davvero il giorno dopo non mi sarei immancabilmente ritrovata tutta sudata nel mio piccolo letto? Forse è questo il punto: tutto è inutile a prescindere. Ogni mattino mi alzo, all’alba, e tutto quello che ho costruito il giorno prima è in balia dell’alta marea. Più di una volta ho visto crollare interi castelli, anche quelli che sembravano non sarebbero mai caduti, i più fortificati. E allora, alla fine, che sia un castello, o una pista da biglie, o una bella e grande e scultura…alla fine tutto non ha senso, a prescindere.
Ecco. Stamattina stavo pensando proprio a questo. E alla fine se ne sono andati via anche loro.
Cosa posso dirti? C’è un mucchio di cose qui.
L’acqua più sporca del mondo: il Brodo. Ma evidentemente piace, perché arrivano sempre più bambini. Sono sempre lì, sempre insieme, a rincorrersi per le strette strade. Grosse scritte nere, bianche, rosso vermiglio, impresse su muri unti di traffico. Viaggiano da una sala giochi all’altra, cavalcando cavalli di metallo. E sembrano felici, lì, e addio. Hai presente? Non puoi non vederli. Con quei vestitini pistacchio e marroncino chiaro, con quelle manine slavate, stritolate e trascinate da mani più grandi di loro, ma ugualmente bianche.
Le strade sono congestionate, vuoi dal traffico, vuoi dalla gente. Uno attaccato all’altro strisciano i piedi su quelle che, un volta, dovevano essere delle strisce pedonali. Mi viene caldo solo a pensarci. Ecco. È di nuovo qui, quell’ansia che soffoca, che uccide. Non se ne va, comincio a pensare che non se ne andrà mai. Si scontrano, si sbattono l’uno contro l’altro, sbraitano, latrando. E i bambini? Sbattono i piedi, volando quasi, schiacciati tra quelle lunghe gambe, un po’ unte, un po’ flaccide e appiccicaticce. Moriranno soffocati, già sembrano morire. Stringono le unghie, braccando quei piccoli dinosauri in plastica a cui sembrano tanto tenere. Ma la plastica si scioglie e i bambini iniziano a ringhiare.
L’aria è muta al passar delle macchine, senza stelle, maligna, persa. Un giornalaio. È affacciato sull’uscio. E adesso sta chiudendo i battenti. Mentre lei rimane lì, torbida e fangosa, a galleggiare tra le teste dei passanti. Aguzza lo sguardo, spalanca gli occhi, amico mio: anche tu potrai…non posso essere solo io a vederla. Con le sue infradito sciabatta battiti sconnessi, fuori tempo. Un nastrino intarsiato di diamanti di plastica, che fascia quelle ditozze dipinte di rosso. Alza il piede e lo sbatte. La gonella in finto cotone si alza, ondeggia. Lascia intravedere qualcosa, non troppo, ma abbastanza. Appoggia la bocca sulla sua testolina dai colori accesi, pungenti al naso. La segue, muovendo i fianchi. Quanto vorrebbe essere al posto di quella gonella. Lo vedo. Gli si legge negli occhi ingordi. Abbassa una mano. La ragazza lo bacia.
Se stessi zitto potresti sentirlo anche tu. Io ormai non ci faccio quasi più caso: ogni giorno la stessa melodia. È particolare. Un suono cristallino, un po’ metallico, fastidioso alla lunga. Ed è alla lunga che noi lo sentiamo. Ti siedi, ti prendi il tuo caffè. Ed ecco. Lui passa, e quel suono con lui. Il solito. Come solito è il caffè che prendo dalla Piera. Ma è ora di andare, amico mio, se ancora non hai capito, è ora che tu veda. Non possiamo seguire tutti i bambini che strisciano per la strada. Con le loro palette in mano.
Ogni giorno le vedo galleggiare in quell’aria putrefatta. Bianche, di un rosa sbadito, grigie, di un celeste sciapo, verdi, tipo muschio incrostato. Di tutte le forme, di tutte le stazze. E poi ci sono quelle con il manico più lungo, per andare più a fondo. Credo. Come se, in fondo, servisse a qualcosa. Dici? Se tu potessi vedere veramente. Fai quello sempre e per sempre. E allora, perché andare più in basso? Perché raggiungere l’acqua e fare fatica se un giorno costruisci un castello di tutto punto con i merli, gli storioni, il fossato e magari anche un bel solido pontile e l’alba dopo il Brodo si è già mangiato tutto? Nulla di più. Di tutte le stazze, di tutte le forme. Ma, in fondo, servono ugualmente ad un unico scopo.
La mia è rotta. La mia paletta. Ora posso usare solo il secchiello. Ecco, appunto: già ci è concesso poco.
Più vai a fondo maggiore è la quantità di terra che riesci a ricavare per fare il castello. Ecco. Forse quello sarebbe l’unico vantaggio di avere una paletta più lunga: ci metti molto meno tempo. Bisogna stare attenti infatti perché se quelli arrivano e non trovano nulla da calpestare è la fine: siamo tutti spacciati, in un modo o in un altro.
Continuo a camminare. Le vedi quelle vecchie laggiù? Il pelo grigio, maculato di bianco. Un po’ rado, in effetti, come se d’improvviso avesse deciso di abbandonarle. Tutto abbandona, alla fine, prima o poi. Di nuovo quelle domande. Frullano nella testa senza sosta, senza speranza né di morte, né di posa. Viaggiano di qua, di là, di giù, di su; travolti da un vortice che non scema mai, ma aumenta sempre più. È così che va la vita. Punto. Quelle vecchiette striminzite stringono le piccole mani in quei manici di plastica. Quelle immortali donnucce vanno a testa bassa, piedi ancorati al terreno, capelli più morti che vivi. E alla fine, senza accorgertene, passi così la tua vita, con un secchiello in mano e un castello da ricostruire ogni santo giorno.
Ma la mia paletta si è rotta.
Un botto e mi giro. Un bambino è caduto a terra. Testa fissa al terreno, grida. Anche la sua paletta si è rotta. Ci è caduto sopra. E grida e urla e sbatte i piedi senza sosta. E ringhia e abbaia e muove le mani come un vortice. La madre si piega sulla sua testolina biondo cenere. Prende le reliquie, le butta nel primo bidone, e subito sostituisce la vecchia paletta con una nuova. Il vecchio rosso bordeaux con un rosso più sbiadito. Tu probabilmente non riesci a vedere, ma io sì. È lei. È uguale. Quelle mani sono dello stesso pallore slavato, hanno le stesse striature rosse. Proprio quelle. Quelle di chi ha passato la sua vita a scavare. Senza sosta. Perché forse la sua paletta non si è mai rotta. Da qualche buffetto sulla testa del bambino. Qualche piccolo schiaffetto. Come si fa con i cani. È felice ora e addio. Ha la sua paletta, lui. Non potrebbe essere altrimenti. Hanno tutti la loro paletta. Non ricordo di aver mai passato un solo giorno senza.
Ma ora è rotta.
Quelle mani. Sì, sono proprio le sue. Di lei credo siano le uniche due cose che io abbia mai realmente visto. Le sue mani. Ma me le ricordo bene, eccome, se me le ricordo. Loro mi hanno dato la prima paletta. Loro me la ridavano quando la mia si rompeva. Loro mi hanno insegnato a scavare. Loro mi hanno abbandonato. La mia paletta è rotta. Erano dure, stanche, affaticate. Rimanevano sempre piegate e le poche volte che si rialzavano dalla fredda terra…poche, perché era raro che succedesse…era per andare a prendere l’acqua. Come lo costruisci un castello di sabbia senza l’acqua? Erano nodose, scattavano irritate, sfinite, distrutte. Eppure, quando mi accarezzava dietro l’orecchio, mi sembravano così morbide. Mi piaceva essere sfiorata proprio lì. Mi piaceva tanto. Lei si sedeva davanti al suo castello ed io mi accoccolavo sulle sue gambe. Facevo le fusa.
Loro mi hanno dato la prima paletta. Ed ora che la mia si è rotta, chi me la ridarà? Il cielo è nero, scuro come la pece, triste come la morte. La morte di quelle morte mani. Ma tra la coltre di nuvole grigie, c’è uno squarcio. E la mia paletta si è rotta. Qualcuno ha sferzato a colpi di coltello quel lembo di carta cinerea. È aperto, sfiancato. Nessuno mai potrà mai richiuderlo. E la mia paletta si è rotta. E dietro a quel grigio c’è un grigio ancora più grigio. Un pullulare di vermi putrefatti. Tu non lo riesci a vedere, amico mio, ma io sì.
Quel bambino ora ha la sua tanto agognata paletta. E corre senza sosta. Corre per andare alla Spiaggia. Sì, proprio quella, la Spiaggia. La nostra. La tua vita la passi sempre là. Lì o dalla Piera, ma comunque sempre qui. Corre, schiva i bidoni, affondando i suoi piedini nel cemento, nell’attesa di affondarli nella sabbia. Ha la sua paletta, lui. È felice e addio.
Eccola lì. Si erge solitaria, distesa tra il mare scuro e il cemento grigio. Si erge solitaria e con questi si confonde. Guardala! Puoi anche toccarla! Sentirla. La sabbia fredda scorre tra le dita. Più la stringi più lei ti abbandona. Tutta abbandona prima o poi. Anche la mia paletta. Affondi le mani dentro di lei, scavi, la spazzoli via e ad un certo punto puoi sentirla. È bagnata. Appiccicaticcia. Unta. Ti si attacca addosso, ti si infila nelle unghie. E non puoi toglierla, sai. Non puoi mica, una volta che affondi le mani dentro di lei. Perché quando lo fai, capisci immediatamente che non potrai mai farne ameno. Lo vedi subito, ti vedi subito con lei per sempre fin quando le tue mani morte diventeranno cenere. Come cenere è lei. E cenere è ciò che usiamo per costruire i nostri castelli. La cenere e la paletta. La nostra migliore amica. Ma vedi lei mi ha abbandonato. Tutto abbandona prima o poi. E allora? Allora sono sola.
Un uomo sta disteso su un mucchietto di terra, con le mani sciape la raggruppa tutto in un punto. Se ti sforzassi un potresti vederlo anche tu. Ma forse la tua paletta non si è rotta. Tiene la testa bassa, fissa su quel mucchiettino. Se arrivano è finito. Lo distruggono in zero due, il suo castello. E distruggeranno anche lui. Lui e la sua lapide. Una lapide? Perché mai dovrebbe essercene una nella Spiaggia? Da quello che ho capito, è una di quelle cose che stanno belle piantate in terra, che rimangono nel tempo per far ricordare. Proprio come una castello di sabbia. Peccato che non sia fatto di pietra perché se fosse così forse costruirlo avrebbe un senso. Che non riesco a trovare e che, a conti fatti, non ci sarebbe comunque. Perché alla fine nessuno leggerebbe mai la scritta sulla lapide e sì, potrai avere anche tutti i castelli di pietra che vuoi, ma resta il fatto che li dovresti costruire su delle fondamenta fatte di sabbia. Hai presente la parabola? Ecco, appunto. Nessuno se ne accorgerebbe: qui conta sola la Spiaggia, e la paletta e il tuo secchiello. E il pezzo di spazio occupato dalla lapide. Proprio quello sarà presto liberato, perché è la sabbia a pesare e non quella scritta. È un’illusione. È vero: sembra proprio resistente, una di quelle cose che non potranno mai cadere, che rimarranno sempre lì. Ferma, immobile a darti il buon giorno ogni giorno, in mezzo a tante cose che invece immancabilmente cadono. Come a dire –qualcosa di eterno c’è-. Me è un’illusione, perché tutto è inutile, tutto finisce e crolla e viene a mancare prima o poi. Il poi conta poco, devi solo sperare che non ti becchino. Ecco, quello sì. O forse no?
Quell’uomo se ne sta lì, a lavorare la sua terra. Sempre più giù, sempre più in fondo, fino a trovare l’acqua. È ovunque. Di qua, di là, di giù, di su; è sopra di noi, nell’aria, sotto di noi, nella terra, nel mare e nel cemento. Tutto è acqua, tutto è il Brodo che distrugge i nostri castelli. Che venga dal basso, che venga dall’alto. Li distrugge, comunque vada. Sta lì, in un cerchio di persone, tutte piegate a lavorare. C’è un bambino, tutto sporco. Con la paletta si gratta la testa. Maledette pulci! Ha le mani bianche ed è piccolo. Piccolo è l’uomo che con lui costruisce il castello. È magro, è stanco. Stanco è il vecchio che arranca sulla sabbia per andare a prendere l’acqua. È stanco e vecchio. Vecchia la terra che lavoriamo da sempre. Vecchia e grigia. Grigio è il cielo squarciato sopra di noi. Grigio e solo. Sola sono io, senza la mia paletta. Si è rotta. Chi me la ridarà? Ma davvero ne voglio una nuova?
La Spiaggia. La nostra vita. La nostra essenza. Ogni famiglia ha le sue palette, i suoi castelli, le sue stanche mani. Ed io ho le mie e con quelle continuerò a lavorare. C’è una donna laggiù. Si trascina dietro una sacca piena d’acqua brodosa come brodosi sono i nostri castelli. Ma come faccio a continuare? Tu l’hai visto. La mia paletta si è rotta. Striscia il manico per terra, lasciando un lungo solco. A fianco l’impronta delle sue zampette deformate. Dietro di lei tanti piccoli bambinetti saltellano, sprofondando sempre più ad ogni salto che fanno. Sempre più giù, fino all’acqua. Che è ovunque, di qua, di là, di giù, di su. Li vedi? Guarda. Ecco. Sono proprio lì. I miei castelli. Sono lì, alcuni integri, altri no. Ma basterà poco, lasciale un po’ di tempo e si porterà via anche loro. Anche loro mi abbandoneranno. Tutto abbandona, prima o poi. E rimarrò definitivamente sola. Senza la mia amica, senza i miei castelli.
È così che si fa, è così che facciamo noi. Piegati per tutta la vita a lavorare la terra. Non riesco a piegarmi. Una ragazza mi affianca. Prende la mia terra, i resti dei miei castelli mangiati dal mare vorace. Non grido, non urlo. Tutti gridano, tutti urlano, qui. Non faccio niente, la lascio fare. La mia paletta si è rotta. Lei saprà meglio di me come usare quella sabbia putrefatta. Quella sabbia che pute del rancido e brodoso mare. E la graffia, la scuoia e la squarta, e da quel piccolo mucchietto, resti di un lavoro passato, tira su un nuovo castello. Un castello alto, forte che il mare ingoierà nella sua profonda gola latrando. Immancabilmente. Quello è il suo compito dopotutto.
Da lui nasce a lui ritorna. Come una lingua scava nella sabbia. Mina le fondamenta delle nostre fatiche, e di queste si nutre, mai sazio, mai contento. Graffia la terra e viaggia, viaggia finché non trova qualcosa, qualsiasi cosa, che possa soddisfarlo. Che sia un castello, che sia un animale, uno di noi, che sia una lapide. Lui, tutto divora, tutto distrugge. Ma, alla fine, è solo grazie a lui se noi riusciamo a costruire i nostri castelli. Si è mai vista della sabbia ergersi da sé? Si è mai vista una casa fatta di soli mattoni? Forse, se i nostri castelli fossero fatti di mattoni e non di sabbia, rimarrebbero nel tempo. Non saprei davvero. Ma alla fine, tu capisci bene che, se le case sono come le lapidi, non c’è speranza per nessuno. Il mare, il tempo, un cane qualsiasi che ti piscia sul castello, quegli uomini in tuta che si divertono tanto a rovinare i nostri lavori…comunque sia, qualsiasi sia la causa, in un modo o nell’altro, prima o poi, oggi o domani…tutto sarà distrutto, ci abbandonerà. Perché tutto abbandona che sia oggi o domani. Irrimediabilmente i morti tornano ai morti, l’acqua al mare, la sabbia alla terra.
I miei castelli ormai sono già tutti consumati. Dovrei piegarmi, farne degli altri. Loro stanno arrivando e vogliono qualcosa da calpestare. La pretendono. La desiderano. Dovrei muovermi ed usare queste bianche mani. Ma la mia paletta si è rotta. E la brodaglia della Piera mi sballonzola ancora nello stomaco.
Sono lì inginocchiata, piegata di fronte a quei piccoli cadaveri a cui io ho offerto tutto il mio affetto. Di fronte a quelle reliquie per cui io ho speso tutta la mia intera vita. Ho speso tutte le mie forze, tutta la mia mente, tutti i miei pensieri, tutte le mie sofferenze, tutte le passioni…perché quei castelli potessero crescere più grandi e più alti, così come mi avevano insegnato a fare le mani di mia madre. E sto distesa su questi miseri resti schiacciata da tutte le parti. Perché il mare brodoso è ovunque. Di qua, di là, di giù, di su. Soffoco e quella tensione, quel fastidio che da tempo provo ritorna. Si rifà vivo in me, mi scuoia, mi squarta, mi dilania. E i pensieri e le emozioni e i dolori vorticano, inondandomi di loro. Ondate di panico, ondate di brodo bollente, cozzano su di me. Io muoio. Io sono già morta. Da tempo, ormai.
Sento un rumore secco provenire dalla spiaggia. Qualcosa si è rotto. Sembra plastica. Sembra una paletta.
Spalanco gli occhi. Sì, ho sentito bene. Era il suono di una paletta che si rompeva. La mia paletta è rotta anche la mia. Ecco. Un suono secco, un suono strano. Quante volte l’avrò sentito durante la mia vita. Quando ero piccola e la mamma me ne dava subito un’altra. Una nuova per continuare quel lavoro. Per continuare ad impastare putridume dalla mattina alla sera, di giorno e di notte. Fino alla morte, quella vera. Affondo le dita in quel marciume putrefatto che pute morte e angoscia. Mi piego, mi alzo, mi rimetto in ginocchio. E alzo gli occhi al cielo. Sì, gli occhi, i miei occhi. E con le mani mi tocco, mi tasto. Ho un naso, una bocca, delle guance e dei capelli. Dei capelli? Non me ne ero mai accorta. E guardo le mani. Le vedi anche tu. Guarda! Guarda bene! Spalanca gli occhi e vedi. Sono pallide, rigate di sangue e di terra tumefatta. Sono sporche, nodose, vecchie, e stanche. Sono morte. Le mani di un cadavere, di un mostro che ritorna dalla morte.
Sono in piedi, sulla sabbia. Il mare avanza, ingordo e vorace, avanza per spazzare tutto il mio passato, tutto quello che io sono stata, tutti i miei castelli. Viscide lingue mi leccano i piedi e la brodaglia della Piera fa a pugni per uscire dal mio stomaco. Prima o poi tutto ci abbandona. Vuole riunirsi al fetido mare, quell’infame. Vuole tornare all’origine del suo fetidume. E, irrimediabilmente, i morti tornano ai morti, l’acqua al mare, i vivi alla vita. Ed io mi sento viva, ora. Viva e sola. Viaggio con lo sguardo, vedo quello che ho sempre visto da tempi immemorabili. Ma la mia paletta si è rotta. Il mare si avventa sui miei piedi. Sei morta, e ai morti devi tornare, continua a latrare. Ma lui lecca e ne avrà ancora da leccare, perché la mia paletta si è rotta. E i vivi tornano ai vivi.
Ma sono sola, in un cimitero fatto di palette e secchielli, di cadaveri accasciati in terra ancora tutti intenti a creare qualcosa di buono. Ma la terra torna alla terra, l’acqua all’acqua, i morti alla morte. E non c’è nulla di buono in quello che creano. Nulla, nemmeno la tanto cara paletta che, prima o poi, sì, ci abbandonerà anche quella. Tutto ci abbandona e tu ormai lo sai bene. Lo squarcio nel cielo è ancora spalancato, la paletta è rotta e non potrà mai essere ricostruita. Mi accascio a terra, impregnandomi della morte che esala da quel posto, dalla Spiaggia. E da viva passerò i miei gironi nella morte, in quel putridume. E da viva sentirò tutto, e da viva vedrò gli altri animali ancora con quelle dannate palette in mano. E da viva morirò, capirò che cosa significa veramente morire. Loro non lo sanno, poverini, loro sono già morti. E i morti tornano ai morti, l’acqua al mare, la sabbia alla terra, i vivi alla morte.
Forse sono le lacrime o la vista, ma io vedo qualcuno. O meglio, qualcosa. Non so bene cosa. Ma si muove, ne sono certa. Si è alzato da terra e si muove. Tutta la Spiaggia risente del medesimo marciume, della medesima esalazione di morte. È una piana senza vita, immobile come immobili sono le bestie che la abitano. È fredda. Dalla Piera vedi bene com’è, vedi l’aria tumefatta che scende su di essa soffocandola. È una coperta, una coperta di lana. Pesante, calda, opprimente. È un tappeto sudicio. È una poltiglia semisolida che riempie ogni buco, ogni spazio d’aria. Ed è così che devono sentirsi loro, che mi sento io. Soffocati. Mentre quell’uomo corre. Veloce. Senza fermarsi mai. Tutto soffoca, lui, invece, sembra così libero. Così, vivo. Ed io che sono viva, sì, proprio io. Mi senti? Io che sono viva, non posso stare qua. Non posso vivere tra i morti. E lui corre e corre e non si ferma mai. Si muove. Il movimento. Cos’è il movimento? Cos’è muoversi in quella landa inerte? Cos’è la vita nella morte? Le nuvole stanno fredde e solide sopra le nostre testa, una coltre grigia e vuota che si apre a noi e non mostra niente al di fuori di quello che è in realtà. Un tappeto di vermi marci. Ma se c’è uno che si muove, uno che viaggia nell’immobilità dell’essere…forse…sì, forse lui è proprio come me. Vivo come me. Ma se lui può viaggiare, allora, non so, ma deve essere così, allora non è tutto una marcire di ossa, di sabbia, di mare, di vermi, di peli, di bar, di Piere e di caffè. Forse c’è qualcos’altro, sebbene io non lo veda.
Ma se rimango qui non lo saprò mai. Devo alzarmi. Affondo i piedi nella sabbia e la terra non mi tiene più ancorata a sé. Io posso camminare, anzi, io posso correre. E corro, forsennata, seguo quell’uomo che è più avanti di me. Niente mi tiene più legato in quel posto di morte, tra quei bambini senza volto, tra quelle palette e quei bidoni pieni di schifo. Niente. Io sono viva. E libera. Il mare. Cos’è più il mare per me? Niente. Tutta la nullità di quella brodaglia si è finalmente mostrata per quello che è veramente. E nulla può contro di me, che sono viva. E i morti tornano ai morti, l’acqua al mare, la sabbia alla terra, i vivi alla vita.
È più avanti di me anni luce, lui. Ma lo tengo d’occhio, non ho intenzione di perderlo. Non lo mollo nemmeno un istante. Io non ci ritorno laggiù, nella spiaggia, dal brodo. Va, di qua, di là, di giù, di su. Se perdo il contatto perdo tutto, lo so. Ed è per questo che lo seguo in tutto. Di qua, di là, di giù, di su. Siamo forsennati, furenti nel nostro movimento. E i cadaveri di cui la spiaggia pullula stanno immobili. Probabilmente non ci vedono nemmeno. Noi corriamo, loro sono fermi, noi respiriamo, loro rantolano, noi gridiamo di gioia, loro urlano. Noi siamo vivi, loro morti.
E proprio là, dove la spiaggia, finisce c’è qualcosa di incredibile. Qualcosa che non avevo mai visto. Un colore forte, intenso, pieno di vita e di respiro. Cosa sono quelli? Alberi? Verdi, di uno smeraldo intenso e vivace. Pieni e freschi. E profumano! Senti! Annusa! Profumano. Mi perdo, nella beatitudine di quelle tonalità e di quei dolci sospiri. E non solo sola qua. E non sono morti loro. No. Sono vivi. E anche più di me. I loro occhi splendono, brillano. I loro occhi sono vivi. E ciò non è possibile laggiù, nella spiaggia. Tutti hanno il volto coperto, anzi, non ce l’hanno proprio, il volto. È qualcosa di nuovo. La Selva, così si chiama, così mi hanno detto. La Selva. Piena di colore e di luce. La Selva. Tutto è nuovo qui. Tutto richiama alla vita. Tutto è vita. E se là io non respiravo, qui i miei polmoni si riempiono di qualcosa di nuovo. Di una libertà mai sperata. Di una libertà mai vista.
Ecco. Questo è il posto dove ognuno di noi dovrebbe vivere. Questo è il posto della vita, non ha nulla a che vedere con quello che noi abbiamo sempre visto, immaginato o sperato. Solo castelli, solo palette. No. C’è qualcosa di diverso, di più bello. Una vita più piena, qui nella Selva. Qui, il punto, dove tutto rinasce. Dove lo schifo del mondo approda. Dove l’uomo morto, con tutto il suo putridume, ci si trova, quasi per caso. Ed io sono qua. Mi è stata data l’occasione per ripartire. Iniziare da capo. Ecco. L’occasione per ripartire. Che deve essere per tutti. Anche per loro, quelli della spiaggia. Non credi? Ma come? Perché loro non possono. Io posso. Non vedi, forse? Io ho potuto. Perché loro no? Sono stata morta come loro, loro sono morti come lo sono stata io. Perché io sì e loro no? Non ha senso lo sai? Anche se è così. Anche se questa è la vita. Non ha senso. Cosa vuol dire eletta?
Continuo a non capire e intanto scuoto la testa. No, non è così. Mi rivedo nella spiaggia. Sì, fa schifo lo so, ma devo ripensare a quell’istante. Sì, proprio a quel momento. Quando credevo che tutto sarebbe finito, quando pensavo che avrei vissuto la restante parte della mia vita da viva nella spiaggia. Nella morte dilagante. Ci ripenso e fa male. E lo rivedo. Quell’uomo. Ti ricordi? Quello che all’inizio non era altro che una macchiolina indistinta. Proprio lui. Non era niente, ma si era mosso. Si era mosso! Come fai a non capire l’importanza di quel piccolissimo gesto. In un nano secondo la mia vita è cambiata. Ma non capisci? Se non fosse stato per lui io sarei rimasta sempre lì. La mia paletta si è rotta. È vero. Lì rinchiusa tra il putridume, lì tra quelle tombe fatte di palette e secchielli. La mia paletta si è rotta. Ho visto. Ma se quel forsennato non si fosse mai messo a correre…e invece è successo qualcosa. Lui si è mosso ed io l’ho seguito.
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